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17 marzo 2018
Lettura convenzionalmente orientata dell'art. 1 della legge 689/81 con riferimento alla "maxi sanzione per lavoro nero"

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così come interpretata dalle pronunce della Corte Europea, ha introdotto in tutti gli ordinamenti interni e quindi anche nel nostro una serie di principi di cui oggi non si può più fare a meno allorquando ci si appresta ad applicare le singole normative nazionali.

La diretta applicabilità di questi principi che oramai dovremmo considerare quasi codificati nel nostro ordinamento implica una serie di riflessi anche in materie diverse da quelle oggetto di intervento.

E così i principi dettati dalla CEDU in materia di pena e di sanzione penale hanno una diretta applicabilità anche quando si devono considerare sanzioni che invece nel nostro ordinamento vengono qualificate come semplici sanzioni amministrative latu sensu.

Quindi, quelle garanzie fondamentali dettate dalla Convenzione in tema di “equo processo” (art. 6) di “ne bis in idem processuale” (art. 4 prot. 7) e di nullum crimen sine lege previa (art. 7) devono trovare applicazione anche con riferimento a quelle che nel nostro ordinamento vengono definite sanzioni amministrative, allorquando le stesse siano da considerarsi “penali” ai sensi della CEDU.

Al riguardo, la Corte EDU ha adottato un approccio sostanzialistico alla nozione di pena, individuando già dalla storica sentenza CEDU Engel e altri c. Paesi Bassi del 08.06.1976 (per il nostro ordinamento Menarini contro Italia del 27.09.2011 e Grande Stevens contro Italia del 4.03.2014) i criteri per stabilire se norme e sanzioni abbiano o meno natura penale, avendo riguardo: a) alla qualificazione giuridica della violazione nell’ordinamento nazionale, b) alla natura effettiva della violazione, c) al grado di severità della sanzione.

Orbene, proprio questi criteri consentono quindi di qualificare in senso penalistico una serie di sanzioni che nel nostro ordinamento vengono definite come “amministrative”, fra le quali, certamente rientra la c.d. maxi sanzione per il lavoro nero, originariamente prevista dall’art. 3 comma 3 del decreto legge 12/2002, successivamente modificata dall’art. 4 comma 1 lettera a) della legge n. 183/2010 che ha temperato il trattamento sanzionatorio introducendo delle ipotesi di riduzione ed elisione totale della sanzione in determinati casi di ravvedimento operoso, ed infine dall’art. 22 comma 1 del d. lgs. n. 151 del 14 Settembre 2015, per il suo carattere evidentemente deterrente e repressivo del lavoro nero e per il suo carattere punitivo nei confronti dell’autore dell’illecito visti i gli importi rilevanti ivi previsti (Ferma restando l'applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro domestico, si applica altresì la sanzione amministrativa pecuniaria:

a) da euro 1.500 a euro 9.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a trenta giorni di effettivo lavoro;

b) da euro 3.000 a euro 18.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore da trentuno e sino a sessanta giorni di effettivo lavoro;

c) da euro 6.000 a euro 36.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore oltre sessanta giorni di effettivo lavoro).

La successione di leggi al riguardo, in particolare la circostanza che il trattamento sanzionatorio introdotto dalla legge 183/2010 sia più mite rispetto a quello originariamente previsto ha posto la questione dell’applicabilità a tale fattispecie del principio previsto dall’art. 7 della Convenzione, ossia il principio della retroattività della norma successiva più mite che nel nostro ordinamento trova la sua espressione soltanto per le sanzioni penali nell’art. 2 comma 2 del codice penale.

La questione in particolare è stata affrontata dal Tribunale di Como che, nel rilevare come la disciplina posteriore sia da considerarsi più mite rispetto a quella vigente al momento della commissione del fatto, ha ritenuto di non poterla comunque applicare stante il disposto dell’art. 1 della legge 689/81.

Questa norma infatti si limita soltanto a sancire la vigenza anche in materia di illeciti amministrativi del principio di irretroattività della legge più sfavorevole disponendo che “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione.” Essa, tuttavia non contiene il precetto della applicazione retroattiva della legge posteriore più favorevole all’autore della violazione amministrativa, come accade invece in materia penale.

Il Tribunale quindi ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 legge 689/81 rinvenendo un contrasto dello stesso sia con l’art. 3 che con l’art. 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della CEDU.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 193 del 2016 ha ritenuto tuttavia non fondata la questione di legittimità rispetto ad entrambi i profili considerati. In particolare, per quel che riguarda il denunciato contrasto con le garanzie poste dalla CEDU, la Corte, pur riconoscendo che l’art. 7 comma 1 della convenzione, così come interpretato da tutta la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sancisca il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite, ha tuttavia precisato che tale principio “non ha mai avuto ad oggetto tutto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento nazionale”.

In altri termini, a parere di chi scrive, la Corte ha ritenuto di non poter intervenire in maniera così drastica su tutto il sistema delle sanzioni amministrative così come previsto dall’art. 1 della legge 689/81, lasciando tuttavia ampi spazi all’interprete, allorquando quelle sanzioni siano da considerarsi “penalistiche” alla luce dei principi elaborati dalla CEDU.

E quindi, una prima chiave di lettura di tale sentenza dovrebbe essere quella di ritenere applicabile l’art. 7 della Convenzione in tutti quei casi in cui la sanzione amministrativa prevista dall’ordinamento interno abbia tuttavia quelle caratteristiche elaborate dalla giurisprudenza della CEDU, dalla sentenza Engel in poi.

 Quindi, secondo questo ragionamento, il Tribunale di Como invece di rimettere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 689/81 avrebbe dovuto rimettere la questione della legittimità della norma che, nel riformare in melius la maxi sanzione per il lavoro nero, non ne ha previsto la retroattività.

Tuttavia, sarebbe opportuno chiedersi se sia possibile una interpretazione del diritto nazionale conforme al dettato dell’art. 7 CEDU, indipendentemente dalla necessità di invocare ogni volta una declaratoria di illegittimità costituzionale.

Al riguardo, il Tribunale di Como ha ritenuto di non poter procedere ad una applicazione “convenzionale” dell’art. 1 della legge 689/81 soprattutto per l’esistenza di una serie di pronunce della Cassazione e del Consiglio di Stato che hanno sempre escluso la possibilità di applicare in via analogica all’illecito amministrativo la disciplina dell’art. 2 comma 2 del codice penale.

Questa impostazione tuttavia, a parere di chi scrive e di autorevoli fonti dottrinali, è certamente superabile sia se si consideri che anche lo stesso art. 2 comma 2 del codice penale potrebbe, ed anzi dovrebbe, essere interpretato in modo conforme ai principi CEDU; e quindi interpretando la locuzione “reato” come comprensiva anche degli illeciti amministrativi punitivi, secondo i criteri Engel, ne deriverebbe la sua diretta applicabilità anche a questi ultimi; sia se si consideri che, essendo la convenzione EDU ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento dalle legge n. 98/1990, le sue disposizioni self executing sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno a meno che non si pongano in diretto conflitto con una norma interna che regola in modo completamente opposto la stessa fattispecie.

Il primo comma dell’art. 1 della legge 689/81 quindi poiché stabilisce esclusivamente il principio della irretroattività della legge più sfavorevole potrebbe quindi essere eterointegrato con il principio della retroattività della legge più favorevole previsto dall’art. 7 della Convenzione, così come allo stesso modo anche le singole norme che prevedono sanzioni amministrative di carattere punitivo potrebbe essere autonomamente integrate dall’art. 7 della CEDU.

In effetti, questa ricostruzione ermeneutica che presuppone una lettura delle nostre norme interne che possa risultare sin da subito convenzionalmente orientata può davvero realizzare quella effettività di tutela richiesta dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. 

                                                                                                                                   Avv. Carlo Congedo